Intervista a Miriam PALMA - ATTRAVERSAMENTI 2025
Vivere di versi, vivere diversi. Intervista a Miriam Palma
Appena conclusa la messa in scena del suo ultimo spettacolo Vivere diVERSI, al Festival Attraversamenti, abbiamo incontrato Miriam Palma, artista dalla voce profondamente radicata nella ricerca e nell’espressività teatrale. Cantante, attrice, autrice e ricercatrice, vive a Palermo, dove ha fondato il Centro di Vocalità canto teatro “Il Corpo della Voce”.
Fin da giovanissima si è dedicata allo studio delle potenzialità della voce umana, esplorando tecniche canore provenienti da diverse culture — dal canto armonico alle emissioni di diplo e triplofonie — fino ad approdare a un linguaggio personale e originale. La sua ricerca fonde l’improvvisazione con la scrittura, attraversando la tradizione canora siciliana e mediorientale, la lirica, la poesia, la narrazione e il teatro.
Con Vivere diVERSI, Miriam Palma intreccia questi elementi in una tessitura poetica che dà corpo e voce a tre figure femminili emblematiche, regalando al pubblico un’esperienza densa di memoria, suono e bellezza.
La voce non è solo un mezzo di comunicazione, ma anche un luogo di risonanza interiore. Secondo lei, cosa rivela la voce su chi siamo davvero?
La voce rivela tutto. Si può forse mentire con il corpo, si può ingannare con le parole, ma per chi ha un orecchio attento, la voce svela il nostro mondo interiore, tutto ciò che siamo in potenza e ciò che potremmo diventare. È il bagaglio dell’anima, capace di riflettere tutte le sfumature che ci abitano, proprio come gli occhi rivelano la vista a chi può vedere.
Ieri sera, ad esempio, tra il pubblico del nostro spettacolo c’era una donna cieca. All’uscita ha detto che per lei era stato meraviglioso, come se avesse visto ogni cosa — eppure aveva solo ascoltato.
Anch’io, spesso, chiudo gli occhi per non lasciarmi distrarre dalla vista: è come se l’orecchio riuscisse a cogliere tutto, laddove l’occhio talvolta limita.
Nel nome stesso del suo centro Il Corpo della Voce si percepisce un’idea incarnata e viscerale del suono. In che modo la sua ricerca vocale mette in relazione corpo, memoria e identità?
La voce è qualcosa di astratto, non si può toccare, ma la si percepisce attraverso l’udito. Eppure, ha bisogno di un corpo per esistere: è lì che abita. Una voce senza corpo sarebbe come disarticolata, priva di direzione, incapace di arrivare. È proprio grazie al corpo che la voce può essere udita.
La voce esiste grazie ai vuoti, agli spazi presenti nel corpo, in particolare nella zona della maschera — ovvero la testa — e poi in tutte le ossa. Si lega profondamente al corpo, con il quale forma un’unità inscindibile, anche se oggi, in ambito teatrale, siamo ormai abituati a separare tutto: il canto dalla recitazione, il movimento dalla parola. Ma in una visione antica del teatro, corpo, voce, gesto, danza e musica erano un tutt’uno. L’attore non era soltanto colui che recitava, come lo intendiamo oggi, ma era anche cantante e danzatore.
Abbiamo avuto la fortuna di conoscere opere come l’Odissea proprio grazie all’oralità, un’arte fondata sul ritmo e sul canto, che permetteva alle parole di essere memorizzate e trasmesse nel tempo. Non a caso, si parlava di cantori e non di attori: l’attore cantava, nel senso sia melodico che ritmico.
Quanto spazio e quanta attenzione c’è all’improvvisazione nei suoi lavori?
Nel mio canovaccio lascio sempre spazio a piccoli momenti di improvvisazione. È come se ci fossero delle isole: approdi precisi, definiti. Per raggiungerle, però, occorre attraversare tratti d’acqua; ed è proprio lì che entra in gioco l’improvvisazione, come un nuoto fluido tra un’isola e l’altra. Sono passaggi liberi, vivi, che connettono le parti fisse del racconto e le rendono più dinamiche e autentiche.
Ha avuto modo di avvicinarsi al lavoro di Carmelo Bene? Lui sosteneva che “La voce è ciò che resta della parola quando la parola è scomparsa”.
Ho un’ammirazione profonda per Carmelo Bene. Sono nata in un periodo in cui non esistevano i social né YouTube, e questo mi ha permesso di assistere a molti suoi spettacoli dal vivo. Con il tempo mi sono resa conto che ci sono diversi punti di contatto tra il suo lavoro di ricerca e il mio.
Per me, il suono della voce è fondamentale. Nella poesia recitata, la parola “scompare” nel senso che, una volta fatta maturare interiormente attraverso lo studio, al momento della pronuncia è il suono a restituirne il significante. Il significato resta presente, ma è come se si dissolvesse. In questo senso, il significante risuona maggiormente rispetto al significato.
Qual è l’anima nascosta del suo ultimo spettacolo “Vivere diVERSI”?
È il mio ultimo lavoro, nato un anno fa, che portavo dentro da molto tempo. È un progetto particolare, frutto di una lunga ricerca letteraria: in esso ho unito tre racconti, di James Joyce e Katherine Mansfield, che amo profondamente.
Il primo racconto è Il canarino della Mansfield, un testo di straordinaria dolcezza. Lo spettacolo dà voce all’anima di tre donne, ognuna di loro chiusa in sé stessa, che si incontrano in una casa di riposo. La protagonista tratta dal racconto della Mansfield l’ho chiamata Maria, poi ci sono Penelope e Molly Bloom.
Il titolo dello spettacolo, Vivere diVERSI, gioca su un doppio significato: da un lato, vivere diversi, perché l’artista vive il mondo in modo differente rispetto agli altri; dall’altro, vivere di versi, cioè nutrirsi di poesia.
Nel suo spettacolo il corredo ha un ruolo centrale. Quale significato simbolico riveste per lei?
Utilizzo non solo il mio corredo, ma anche quello di mia madre e della mia seconda madre. Si tratta di quei meravigliosi corredi fatti di lenzuola, tovaglie, centrini, coperte, tutte ricamate a mano con arte, che erano comuni in Sicilia fino agli anni ’50.
Il ricamo, un’arte tradizionalmente femminile oggi quasi scomparsa, evoca la pazienza necessaria a sciogliere i nodi, la gentilezza del gesto, la padronanza del tempo. Ricorda di intrecciare con cura la trama del tempo.
Da semplice corredo, è diventato una materia scenica: i teli si trasformano in ombre ricamate, perché li impiego nella parte dedicata a Penelope e Ulisse attraverso la tecnica del teatro delle ombre.
Nella parte finale dello spettacolo, con Molly Bloom, il corredo si trasforma in un grande sipario, e infine in un fondale per proiezioni.
È come se, con questo lavoro, io dicessi addio a un mondo legato a una certa idea di bellezza e di cura per l’estetica quotidiana come, per esempio, il modo in cui si preparava il letto una volta.
Che tipo di addio è?
Mi sono resa conto che anche la scelta letteraria di Omero e Joyce segna, in qualche modo, un inizio e una fine. Carmelo Bene diceva persino che, dopo Joyce, nessuno avrebbe più dovuto scrivere.
È una sorta di addio a un modo di essere, di vivere, di lavorare. Oggi, per esempio, in tanti scrivono ma in pochi leggono. È un addio ad un mondo meraviglioso che non esiste più e non so dire se sia un bene o un male, forse entrambe le cose.
Che cosa hanno in comune le tre donne protagoniste?
Apparentemente, sono tre donne molto diverse tra loro, con temperamenti differenti, ma accomunate dall’amore — un amore in cui, per ciascuna, si cela una mancanza. Le unisce anche il corredo: Maria lo possedeva, ma non lo ha mai utilizzato perché non si è mai sposata; Penelope lo aveva, ma è come se non avesse mai potuto usarlo davvero, dato che il marito è stato assente per quasi tutta la vita; Molly Bloom, invece, non ne ha mai avuto uno.
Ognuna di loro racconta una forma di mancanza: per Maria, è rappresentata dal canarino, un compagno prezioso; per Penelope, è l’assenza di Ulisse; per Molly Bloom, è quella di Leopold, un antieroe.
Facendo riferimento a ciò che rappresenta il canarino di Katherine Mansfield, come risuona in lei la citazione “Tutto ciò che non abbiamo avuto ci ha insegnato a raccontare”?
È attorno a ciò che ci manca che costruiamo i nostri racconti. La mancanza è ciò che ci muove, che ci anima, che ci tiene vivi. Spesso siamo più concentrati su ciò che ci manca che su ciò che già possediamo.
Lei si è affiancata numerose volte ai progetti di Teatri di Pietra. Che rapporto ha instaurato con il direttore artistico, il M° Aurelio Gatti, nel corso degli anni?
Con il M° Gatti ci conosciamo da circa quindici anni e la nostra è sempre stata una collaborazione profonda e sentita. Nel panorama artistico che ho avuto modo di attraversare in oltre quarant’anni di attività sul campo, lui è stato uno dei pochi direttori artistici a distinguersi per sensibilità e spessore. Con il tempo, tra noi si è costruito un rapporto prezioso, sia sul piano artistico che umano.
Che cosa le ha lasciato, in particolare, questa messa in scena al festival Attraversamenti?
L’Appia Antica è un luogo evocativo e carico di memoria che ha dialogato tantissimo con lo spettacolo.
Mi auguro che questo lavoro possa viaggiare a lungo, perché ogni volta che lo porto in scena mi commuove vedere come il pubblico resti incantato e, alla fine dello spettacolo, fatichi ad andarsene.
Livia Filippi
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