Intervista a Angiola BAGGI- ATTRAVERSAMENTI 2025

Il silenzio, la voce: 
intervista ad Angiola Baggi



Angiola Baggi incarna da oltre sei decenni la misura e l’intensità del mestiere d’attrice e doppiatrice. Nata in Veneto nel 1946, ha avviato la sua lunga ed articolata carriera da giovanissima, nei primi anni Sessanta. La sua presenza ha attraversato con eleganza e discrezione il teatro, il cinema e, soprattutto, la televisione, alla quale ha dedicato gran parte del suo percorso.

Attrice di grande versatilità, è anche una voce tra le più riconoscibili del doppiaggio, capace di restituire con precisione le sfumature più profonde dei personaggi.

L’abbiamo incontrata in occasione della prima nazionale di Ecuba. L’insostenibile sofferenza della consapevolezza, che la vede protagonista al fianco di Maria Cristina Gionta, Luca Negroni ed Emiliano Ottaviani, in una riscrittura contemporanea della tragedia di Euripide, versione di Marina Pizzi. Lo spettacolo, per la regia di Silvio Giordani e con le musiche di Francesco Verdinelli, debutterà il 6 luglio al Centro Teatrale Artigiano di Roma, nell’ambito del festival ATTRAVERSAMENTI, promosso dal Parco Archeologico dell’Appia Antica e da Teatri di Pietra. Un evento che riporta in scena la tragedia greca con uno sguardo attuale, affidandosi alla sensibilità di un’artista e interprete in continua evoluzione, che fa dell’ascolto, della profondità e della misura la cifra distintiva del suo lavoro.

Teatri di Pietra intende il “contemporaneo” come consapevolezza dell’epoca in cui viviamo. Cosa significa per te calarti in un testo antico come Ecuba con questo sguardo attento al nostro presente?

La vicenda di Ecuba, pur non essendo ambientata ai giorni nostri, affronta temi di straordinaria attualità. Basti pensare a tutte le guerre che si stanno combattendo nel mondo in questo momento: per me, significa parlare di realtà che ci toccano da vicino e che ci colpiscono nel profondo.

Come sono stati reinterpretati, sia dal punto di vista attoriale che registico, i personaggi femminili in questo adattamento di Ecuba?

 Sul testo è stato fatto un lavoro di riscrittura: nell’originale i personaggi sono molti di più. Per quanto riguarda le figure femminili, Ecuba è un personaggio enorme, complesso e completo, che non ha richiesto modifiche. Diverso è il caso di Polissena, alla quale sono stati apportati numerosi cambiamenti. In Euripide, infatti, si tratta di un personaggio minore: pur essendo al centro di molte dinamiche, compare solo all’inizio. È stata quindi arricchita con diverse battute del coro, che le conferiscono un’aura diversa e le permettono di riapparire anche dopo la morte, come fantasma. Da un punto di vista interpretativo, abbiamo scelto una recitazione di tipo moderno, pur mantenendo sempre presente la struttura ritmica del testo, che richiama il classico.

Raccontami del legame artistico, consolidato già precedentemente a questo spettacolo, con l’attrice Maria Grazia Gionta.

Tra di noi c’è una grande intesa e una forte collaborazione. Non è sempre così in teatro: a volte il rapporto può risultare complicato, ma in questo caso non ci sono attriti, e so di poter contare su un interlocutore presente e partecipe. Recitare è un atto che richiede almeno due persone, è come giocare a palla: da soli non si può. Con lei siamo davvero in due, e questo è qualcosa di molto importante. Tutti insieme per questo spettacolo abbiamo creato un vero team da cui deriva una sinergia stimolante, che ha qualcosa di magico.

I miti greci continuano a ritornare, dal teatro, al cinema, alla letteratura. Secondo te, perché queste storie scritte oltre duemila anni fa restano così vive nel nostro immaginario collettivo? Cosa ci dicono ancora oggi?

I miti greci, in fondo, parlano dell’uomo. Come tutti i classici, anche quelli più recenti, toccano l’essenza dell’essere umano: i suoi sentimenti, i suoi valori, i desideri e le mancanze. Parlano di noi, perché l’uomo, nella sua natura profonda, non è cambiato. Alterna momenti di crescita a fasi di imbarbarimento. E proprio attraverso i miti possiamo riconoscerci e, forse, riflettere su noi stessi.

Ci sono voci, autori o artisti che consideri i tuoi punti di riferimento?

Non ho punti di riferimento fissi, non amo fermarmi. Certo, torno spesso ai classici, che rileggo più volte, scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo. Ma i miei riferimenti cambiano con le stagioni della vita: sono in continua evoluzione.

Cosa pensi si stia perdendo e conquistando oggi nel mestiere dell’attore?

Il mestiere dell’attore, inteso come costruzione di una carriera professionale, oggi è diventato molto più complesso. Un tempo il fulcro era il “recitare”, basato sulla stima e sulla conoscenza diretta all’interno di un ambiente tutto sommato circoscritto. Oggi non è più così: il settore si è trasformato in un vero e proprio business, dominato dalle logiche di mercato. Basta pensare all’influenza che possono avere internet e le piattaforme.

Anche la formazione è cambiata: un tempo gli attori venivano quasi tutti dal teatro, mentre oggi i percorsi sono molto più variegati. È cambiato anche il pubblico, con gusti e aspettative differenti. Tutto ciò riflette una più ampia evoluzione sociale e culturale, ma comporta anche una certa confusione.

Per fortuna, esistono nuove generazioni di attori molto talentuosi, capaci di trovare un equilibrio tra il linguaggio espressivo del passato e un’immediatezza più vicina alla sensibilità contemporanea.

Qual è la scena più difficile che hai doppiato nel corso della tua carriera?

Si tratta di un intero film: Transamerica, del 2005, diretto da Duncan Tucker, con Felicity Huffman. Racconta la storia di una transgender che, durante il percorso di transizione, parla con un tono di voce ancora marcatamente maschile. Mantenere quella voce è stato tecnicamente molto difficile.

Mi ritrovavo con un timbro che non era il mio e, una volta tornata a casa, cercavo di non parlare affatto. Mi sembrava di essere un “Visitor”.

Il doppiaggio è tutto basato sulla parola, eppure spesso si lavora nei silenzi degli altri. Che ruolo ha per te il silenzio in questo mestiere?

Prima di tutto, il silenzio significa saper ascoltare. Ed è proprio attraverso l’ascolto che si trovano le reazioni autentiche: i sentimenti emergono, prendono forma e si trasformano. Per lo sviluppo di un personaggio e non solo, il silenzio è un elemento fondamentale.

 Livia Filippi


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