Intervista a Sergio VERPERTINO - ATTRAVERSAMENTI 2025

 Senza quarta parete: intervista all’attore Sergio Vespertino


C’è chi Pirandello lo studia, chi lo cita, chi lo teme. E poi c’è chi lo indossa, lo smonta e lo rimette insieme con un vestito su misura. Sergio Vespertino, attore e autore palermitano, fa esattamente questo: prende l’umorismo spiazzante del grande drammaturgo siciliano e lo attraversa con il passo leggero dell’ironia, senza mai perderne la profondità. Lo incontriamo a pochi giorni dal debutto romano di Pirandello. Questo, codesto e quello, del 28 giugno, nell’ambito del festival Attraversamenti, promosso dal Parco Archeologico dell’Appia Antica e da Teatri di Pietra.

Quando hai capito che il teatro sarebbe stata la tua strada?

Da ragazzo mi ritrovavo sempre a un certo orario con i miei amici e mi divertivo a inventare piccole fiction. Sentivo il bisogno di condividere con loro ciò che avevo in mente, di raccontare le storie che immaginavo. Non ho mai smesso di farlo. Non ho mai smesso recitare, ma anche di scrivere: sono autore dei miei testi e vivo di questo mestiere dal 1991.

Qual è lo spettacolo che ha segnato una svolta nella tua carriera?

È stato La cattura, una novella minore di Pirandello, messa in scena con la regia di Giuseppe Dipasquale. Avevo un ruolo che mi portava a stretto contatto con l’attore Turi Ferro, e chi meglio di lui ha saputo rappresentare i grandi autori come Sciascia o Pirandello. In quella occasione ho anche conosciuto il suo grande amico Andrea Camilleri.

Qual è stato il Maestro che ha avuto maggiore influenza nel tuo percorso artistico?

 Ne ho avuti diversi di maestri, ma il primo in assoluto è stato Pippo Spicuzza. È stato lui a prendermi quando ero ancora una “bestia da palcoscenico” e ha iniziato a levigarmi, a insegnarmi i confini e i perimetri della scena. Con lui ho vissuto la scuola di teatro direttamente sul campo.

Quanto c’è della tua storia personale e di Palermo nel tuo modo di recitare e scrivere?

Gli spettacoli che scrivo mi rappresentano molto: c’è molta autocritica. Sono come piccoli autoritratti mascherati. In  Strafelicissima Palermo, ad esempio, ho parlato per la prima volta di mio padre che ho perso quando avevo tredici anni. Per me, il cuore di Palermo è lui: la Palermo degli anni ‘70, quella degli artigiani. Ho l’ostinatezza non solo di raccogliere gli umori del mio terriotorio ma anche di perseverarne il linguaggio. Uso il dialetto, che naturalmente filtro quando mi esibisco fuori dalla Sicilia.

Il dialetto è un mezzo per arrivare senz’altro in modo più diretto

Nonostante per molti anni abbia vissuto l’idea della “scatola teatrale”, non ho mai voluto davvero la quarta parete: l’ho “abbattuta” e continuo a farlo in tutti i miei spettacoli. Il rapporto tra l’attore e pubblico per me è fondamentale, deve essere il più autentico possibile. Dario Fo, con il suo grammelot – una lingua completamente inventata – insegna che, se riesci a entrare nel linguaggio del corpo, dei suoni, della mimica, puoi parlare anche in aramaico antico e riuscire comunque a comunicare in modo diretto e genuino.

Secondo te, in quanto uno degli attori comici più amati dal pubblico siciliano, la comicità ha dei limiti?

La comicità, se non si alimenta anche di un percorso narrativo e di una morale, rischia di essere fine a sé stessa. Ma se ad una risata – amara o meno che sia – si accompagna anche una riflessione, allora si restituisce qualcosa di più profondo al pubblico. Nella mia prima fase di crescita professionale ho iniziato appunto come attore comico, probabilmente perché, in quel periodo della mia vita, ero io per primo ad aver bisogno di ridere. Fin da subito, però, ho cercato di inserire nei miei spettacoli piccoli spunti di riflessione, un “solletico interiore”. Questo mi ha permesso di far emergere la malinconia, che è una costante nei miei lavori.

Hai conosciuto Franco Scaldati, un grande drammaturgo, attore e regista palermitano, molto diverso dal tuo genere

Ho avuto la fortuna di conoscere Franco Scaldati e di seguirlo: era un grande poeta. Sì, apparteniamo a generi molto diversi. Io sono più istintivo, più “nervi”; lui, invece, era pacato, riflessivo, e con pochi movimenti riusciva a raccontare mondi interi. Io uso molto il corpo, gioco di più con i toni, mentre lui lavorava sull’essenzialità, sulla profondità del silenzio e della parola.

Quali sono i progetti con cui hai collaborato con Teatri di Pietra?

Nel 2024 ho partecipato ad Attraversamenti con Ulisse racconta Ulisse, uno spettacolo che ho scritto e interpretato. Era un Ulisse dissacrante, trasversale: desideravo entrare nel circuito degli eventi organizzati da Teatri di Pietra, ma non da purista – in me manca il concetto di “attore puro”. Ho creato un Ulisse di rottura, in cui non emerge l’eroe tradizionale, perché un eroe salva le vite, non le distrugge. Il mio è un Ulisse profondamente umano, con i suoi valori, ma anche con tutte le sue fragilità. Da lì è nata una collaborazione continuativa, che ha portato alla creazione del mio ultimo spettacolo dedicato a Pirandello. Ho partecipato anche all’evento Cloris_Molteplici relazioni, all’Orto Botanico di Palermo. In quell’occasione ho proposto la mia personale interpretazione della ninfa Cloris, dea della fioritura, ispirandomi alle molteplici letture simboliche del celebre dipinto di Botticelli. Abbiamo costruito un percorso itinerante molto suggestivo: il pubblico si muoveva tra installazioni umane disseminate per tutto l’Orto Botanico. Il momento più intenso? Quando è andata via la luce: siamo rimasti immersi solo nei suoni degli alberi, in una dimensione quasi primitiva, di ascolto puro. È stato un ritrovarci, un silenzio condiviso e potente. D’altronde, una delle peculiarità di Teatri di Pietra è proprio quella di vivere i luoghi in modo inusuale, trasformandoli in spazi di esperienza vera.

Nel tuo “Pirandello. Questo codesto e quello”, sembra che i personaggi si ribellano al proprio autore

Non mi interessava rappresentare un’opera di Pirandello in senso stretto. Al contrario, ho voluto immaginare i suoi personaggi, già scritti, che si danno appuntamento in un luogo surreale: dentro la pagina di uno dei suoi libri. La scenografia, curata da Mariano Brusca e Salvatore Scherma, è composta da cumuli di lettere, come se il linguaggio stesso prendesse corpo. In questo spettacolo è Pirandello ad essere invitato a sedersi, ad ascoltare i suoi personaggi, tutti interpretati da me. Ad accompagnarmi in scena ci sono le musiche originali di Virginia Maiorana. Alla fine è lo stesso Pirandello a spiegare perché ha dato vita a personaggi incapaci di aprirsi alla gioia o anche solo ad una piccola rivoluzione. È un modo per raccontarlo da un’altra prospettiva, per provare a restituire una nuova lettura di un autore che, in fondo, ci accompagna da sempre, fin dai tempi della scuola.

Qual è lo scrittore che ha ispirato di più i tuoi testi?

Senza dubbio, Dino Buzzati. Molti dei miei testi sono nati dalla lettura della sua raccolta Sessanta racconti. Ad esempio, lo spettacolo Carrubbello è liberamente ispirato al racconto Il cane che ha visto Dio. Il mio pubblico si aspettava qualcosa di comico da me, ma quel racconto, in realtà, non fa affatto ridere. Ho immaginato la storia di un cane che arriva in un paesino immaginario chiamato Carrubbello. In scena interpreto sedici personaggi diversi, dando voce all’intera comunità del paese: dall’eremita al professore, dal fornaio a tanti altri.

Qual è il personaggio televisivo che hai interpretato e che ti è rimasto più nel cuore? E quale, invece, al cinema?

In televisione, uno dei personaggi che ho amato di più interpretare è stato Tommaso Buscetta nel film La mafia uccide solo d’estate.
Al cinema, invece, un ruolo che mi ha dato moltissimo è stato nel film In guerra per amore, in cui interpretavo un personaggio cieco e zoppo. Dare credibilità a un ruolo con una tale complessità fisica ed emotiva è stata una grande sfida.

Livia Filippi

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